profilo KLEIBER, IL TITANO INSICURO
di Vittorio Cappelli e Mario Sesti
regia di Pier Luigi Pizzi con Remo Girone e Anita Bartolucci

Considerato in un recente referendum, votato dai cento maggiori direttori d’orchestra del mondo, come il più grande direttore d’orchestra di tutti i tempi, Carlos Kleiber, è a nove anni dalla sua morte, ancora un mistero. Per tutta la vita si è negato, non ha mai concesso interviste, non ha mai scritto di sé o della propria arte in saggi, articoli, libri. Ha detto, anzi, che non voleva lasciare alcuna traccia. Nella sua carriera ha diretto solo un pugno di titoli: undici opere e una manciata di Sinfonie (mai Mozart o Mahler). A Roma si è esibito due sole volte. Cos’è che ancora oggi lo rende così importante e unico, perché vive tuttora in un’aura leggendaria nel mondo della musica? La pièce, nella forma di una conversazione fantastica e immaginaria, dà voce finalmente al suo mito, affrontando gli aspetti più caratteristici della sua personalità: il maniacale perfezionismo, il rapporto molto conflittuale col padre Erich, che era a sua volta un grande direttore ma che non raggiunse la fama del figlio, l’estrema sensibilità e fragilità che lo portarono a clamorose fughe e abbandoni, il dialogo con le orchestre assolutamente inimitabile (alle prove si esprimeva per paradossi e metafore extramusicali). Il testo, insieme con l’intrecciarsi di musica e video, ritrae per la prima volta altezze e abissi di un artista che ha profondamente segnato il ’900, diventando nel mondo della direzione d’orchestra l’equivalente di una rockstar, capace di trasformare le sue esecuzioni in una esperienza quasi mistica.

INTERVISTA DI VALERIO CAPPELLI A RICCARDO MUTI 

Riccardo Muti, lei era molto amico di Carlos Kleiber. Quando vi siete conosciuti?
«Nel 1981 alla Scala. Io dirigevo Le Nozze di Figaro, lui preparava un’altra opera. Si metteva in un palco e seguiva le mie prove di lettura. Non ci conoscevamo di persona. Era interessato a guardare gli altri colleghi, cercava di scoprire se c’era qualcosa di nuovo, di sconosciuto, pur essendo un direttore addirittura magico. Non chiedeva consigli, poneva domande sul perché avessi fatto quel gesto. Non era insicurezza: era curiosità».

Nell’ambiente cosa si diceva di lui?
«Il suo nome era conosciuto noi già dagli anni ’70, si parlava tanto di questo talento figlio del grande direttore Erich Kleiber. Carlos era berlinese di nascita ma veniva dal Sudamerica (strana anche questa provenienza da un mondo così lontano), e poi arrivò in Europa».

L’amicizia fra voi è nata...
«Dopo la Scala ci siamo visti tante volte a Monaco, dove viveva. Al mio primo Macbeth lì, rimase colpito dal modo in cui lavoravo col coro, diceva che noi italiani abbiamo dimestichezza nel canto, soprattutto di opere italiane, che lui non aveva».

Sorprendente per una professione dove l’ego fa parte dei ferri del mestiere.
«E queste cose era capace di scriverle e di metterle nero su bianco. Faceva domande con semplicità e innocenza, con un’aria da bambino. Una delle sue passioni erano le automobili. Quando ne ricevette una piena di accessori, venne a prendermi all’Hotel Le Quattro Stagioni-Kempinski, era fiero di accendere tutte quelle luci e quei colori. Ecco, il colore si riflette sulla sua natura e su certi suoi giudizi».

Cioé?
«Nel campo dei direttori italiani, più che dal rigore di Toscanini e da certe durezze che non condivideva, era impressionato da De Sabata, il suo mondo di immaginazione così irruenta, il suo senso quasi improvvisatorio. Diceva di non amare chi ottiene un risultato attraverso la paura e un atteggiamento aggressivo. Il suo modo di pensare e di riflettere erano inclini a una natura di libertà controllata».

A volte Kleiber era spiazzante nei giudizi su altri direttori.
«Alcune sue riflessioni su colleghi molto famosi andavano contro il giudizio corrente. Li trovava noiosi o troppo razionali. In America c’era ammirazione per Fritz Reiner o George Szell. Lui invece adorava Leopold Stokowski, che era l’opposto di Toscanini, il quale considerava Stokowski un grande dilettante. Ma il senso del diletto era presente nelle interpretazioni di Carlos Kleiber. Basta guardarlo dal vivo nei dvd e si resta colpiti dal suo modo di dirigere, che non è battere il tempo ma segnare col gesto la curvatura della musica, e non il comando. Aveva chiara la capacità di rispettare l’agogica della frase musicale, quel respiro interno che dava il senso di assoluta libertà. Divideva i direttori in tre categorie: i piloti che non capiscono nulla di motore, il direttore che non è un buon pilota ma è capace di smontare e rimontare un motore e questi sono i più comuni. Poi c’è un gruppo ristretto, i piloti che conoscono tutto il meccanismo».

Fu Sviatoslav Richter a definirlo il titano insicuro.
«Quando incisero il Concerto per piano di Dvorak, Kleiber era giovane. La sua insicurezza era una maniera esteriore, si capiva che c’era una sicurezza ferrea delle sue idee. Chiedeva col suo fare disarmante, sembravano quasi domande da principiante. In realtà era una verifica».

Aveva un approccio etico alla musica.
«Credo che derivasse dal padre, Erich. Del padre-padre non parlava mai, del padre-direttore aveva un’ammirazione straordinaria. Erich fu il primo interprete del Wozzeck, un’opera moderna ma anche fortemente romantica che Carlos ha visto nascere e svilupparsi in casa sua».

Quando diceva che ci sono musiche belle solo sulla carta...
«Voleva dire che di fronte a pagine sublimi, il sublime è intoccabile; trovava che la massima espressione fosse nello stare sulla carta perché nella mente di un interprete esse creano già un mondo fantastico e irraggiungibile; quando il sublime si materializza in un suono concreto, si rivela l’assoluta limitatezza dell’interprete». Per tutta la vita si esercitò su un pugno di titoli. Mai un’opera di Mozart o una Sinfonia di Mahler, mai la Nona di Beethoven. Che cosa avrebbe voluto sentire da lui? «È un argomento importante. Quando venne al mio Parsifal alla Scala lui era lì, accanto a mia moglie, dalle prime prove alla generale. Gli dissi: Parsifal sembra scritto per te. E lui, che aveva un grande senso dell’humour, rispose: non lo farei mai, non ho braccia abbastanza lunghe. Si riferiva alla durata dell’ultimo Wagner. E poi ricordo un suo commento al Crepuscolo degli dei: Ci sono punti talmente alti che si potrebbe anche morire sul podio. L’estasi di Wagner».

Alle orchestre parlava con metafore extramusicali.
«A un clarinettista chiese un piano. Ma io sto suonando così, rispose. Kleiber aggiunse: il musicista è come un mendicante col cappello in mano. Se riesce ad avere un soldo è contento, se ne ha due è più contento. E a proposito di humour, una volta a Salisburgo sotto una nostra foto insieme invertì le firme, mise la sua sotto il mio volto, e viceversa».

L’ultimo ricordo?
«Nel 2004 al mio ultimo concerto di Capodanno a Vienna, lo chiamai per un consiglio su un brano di Johann Strauss in cui trovavo grandi differenze tra Karajan, Krauss e suo padre. Mi rispose con voce stranissima: sono appena tornato dall’ospedale, è morta mia moglie. Ero costernato, volevo richiamarlo dopo qualche giorno. Ma lui volle aiutarmi, disse alcune cose sull’italianità e la nostra libertà per quel tipo di musica. La mattina seguente mi fece mandare un biglietto d’auguri, dicendo che sarebbe stato davanti alla tv. Dopo il concerto arrivò un altro biglietto: quel pezzo di Strauss era perfetto».

E i suoi tempi brucianti?
«Non lo erano sempre. Lo erano per l’ultimo tempo della terza di Schubert che è in forma di tarantella, o per il finale della Settima di Beethoven o per la Seconda di Brahms. Come delle improvvise folate di vento».

Valerio Cappelli
per gentile concessione del Corriere della Sera


luci Vincenzo Raponi

coproduzione Festival di Spoleto e Teatro dell’Opera
produzione esecutiva Bis Tremila srl
assistente alla regia Andrea Bernard
organizzazione Teresa Rizzo

si ringraziano per la collaborazione
Alessandra Puliafico , Gianchi srl , Design For House,
Cherubini strumenti musicali.


I partecipanti (PDF)



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